Né animali in via di estinzione né animali rarissimi: gli animali più studiati sono senza dubbio gli ungulati selvatici italiani.
Conosci davvero questa categoria di animali?
Sono tantissimi infatti gli studi che si occupano, e si sono occupati in passato, di questa specie, monitorandone molteplici aspetti e offrendo un buon repertorio storico, sottolineandone, quindi, la grande importanza sotto diversi aspetti:
- sono infatti una componente di rilievo degli animali che abitano numerosi habitat, di cui spesso costituiscono le specie di maggiore taglia;
- sono un’ambita preda tra i cacciatori, portandosi dietro problematiche e questioni di difficile risoluzione;
- da ultimo, rappresentano un difficile impegno gestionale relativamente al contenimento della loro popolazione, alla definizione delle leggi che ne limitano la caccia e per la gestione dei danni causati proprio da questa specie all’agricoltura e non solo.
Prima di estendere l’argomento è bene inquadrare quali sono gli animali a cui ci riferiamo quando parliamo di ungulati selvatici italiani
Cinghiale
Senza dubbio è l’ungulato selvatico più numeroso in Italia, la sua presenza interessa quasi tutto il territorio nazionale essendo praticamente diffuso in tutta la penisola, fanno eccezione solo alcune zone della parte veneta della Pianura Padana, la fascia adriatica, buona parte della Puglia e alcune aree della Sicilia.
La notevole presenza di cinghiali (da noi come in tutta Europa in realtà) è dovuta in buona parte alla sua grande capacità di adattamento cui purtroppo fa da contraltare l’elevato impatto negativo sulle coltivazioni e nei confronti degli ecosistemi locali. È nota infatti l’abitudine dell’animale a scavare nei terreni agricoli, così come la frequente riduzione di volatili quali fagiani e pernici a causa della predazione di uova.
Nel complesso la popolazione del cinghiale è solita a picchi numerici dovuti a molteplici condizioni (tra i quali è necessario citare l’immissione purtroppo incontrollata a fini venatori) ed è quella che negli ultimi decenni è cresciuta di più, sia come numero di esemplari sia come espansione territoriale. Secondo le stime più aggiornate, risalenti però al 2015, il loro numero supererebbe il milione di unità (stima Coldiretti). Ad influire sul numero della riproduzione ci sono fattori come la disponibilità ambientale di cibo nel bosco o le variazioni climatiche che determinano modificazioni degli alimenti di cui il cinghiale si nutre e delle condizioni del terreno.
Cervo
È il più grande mammifero ungulato italiano, diffuso sulle Alpi e Prealpi. La sua caratteristica è di aver un maggiore ritmo di espansione rispetto alle altre specie, un fattore che rende sempre più frequenti gli avvistamenti anche nell’Appennino.
Fino al 18esimo secolo è stato diffusissimo in tutta Europa: parliamo di un territorio allora ricco di foreste, habitat ideale dei cervidi. Le modifiche apportate dall’uomo per ragioni demografiche e industriali, unite alla crescita dell’attività di caccia, portarono a una notevole riduzione della popolazione. In Italia nello specifico, già con il perfezionamento delle armi da fuoco (tra il 17esimo e il 19esimo secolo), si arrivò quasi alla sparizione della specie.
Le successive misure di tutela e di reintroduzione evidentemente hanno dato i loro frutti visto che la popolazione italiana era considerata praticamente estinta nel secondo dopoguerra. Nel 2010, sono stati stimati circa 70.000 capi e la densità maggiore si ha sulle Alpi Orientali. Di particolare interesse sono due specie di cervo presenti in Italia: quello sardo e quello della Mesola.
Daino
Il daino è un cervide suddivisibile in due tipologie: una europea e una persiana. Si ritiene in ogni caso sia originario della parte orientale del Mediterraneo, ma in Italia è considerata specie alloctona, tant’è vero che la sua presenza non viene documentata prima del medioevo.
Sebbene sia estremamente adattabile, preferisce notevolmente zone boschive aperte, evitando le quelle montuose: ragion per cui nel nostro territorio è presente in prevalenza nell’Appennino centrale e nelle confinanti aree collinari. La sua dieta è composta principalmente da foglie, frutta, germogli ed erba, anche se non ha problemi ad adattarsi al cibo che trova in base all’ambiente di appartenenza.
Ad oggi se ne contano circa 20mila capi ma non si cerca di stimolarne la diffusione, poiché si punta a privilegiare le specie autoctone e quindi a evitare le competizioni territoriali in cui gli stessi daini risultano generalmente vincitori a discapito di cervi e caprioli. Inoltre la tendenza di questa specie alla socialità e alla densità può causare notevoli danni al suolo boschivo.
Capriolo
I boschi di montagna o le periferie delle città non fanno differenza: il capriolo è uno degli ungulati italiani selvatici più diffuso (nonchè il più comune a livello europeo) e recentemente sta salendo agli onori delle cronache per il fatto di spingersi fino a parchi pubblici, giardini di abitazioni e cassonetti. Inoltre è la specie più interessata dalle attività venatorie, soprattutto di selezione.
Tra le sue caratteristiche c’è proprio quella di saper abitare sia spazi naturali che quelli dove la presenza dell’uomo è tangibile. Le principali zone di diffusione del capriolo sono la Pianura Padana, l’Appennino, Prealpi e Alpi: predilige in ogni caso pianure, rilievi collinari o montagne poco elevate, caratterizzate quindi da scarso innevamento.
Sono stati stimati 456mila esemplari (dati 2010), anche se negli ultimi anni l’impressione è che la popolazione sia aumentata.
Il capriolo è presente ovunque tranne che in Sardegna. Piccola eccezione per la Sicilia, regione in cui era stato fatto un tentativo di introduzione che non è andato a buon fine (si ritiene che la popolazione sia totalmente scomparsa).
Stambecco
Tra gli ungulati selvatici italiani è l’unico presente esclusivamente nell’arco alpino. Al di fuori dei confini nazionali vive nell’area euroasiatica e in Etiopia. Nel nostro paese se ne contano soltanto 53 colonie ma viene ritenuto in via di espansione: nelle ultime stime la popolazione si presuppone vicina ai 15mila esemplari.
Parte del genere capra (e quindi grande arrampicatore), storicamente i suoi avi raggiunsero la sua massima espansione nel corso dell’ultima glaciazione (nel quaternario, circa 2 milioni di anni fa). Predilige ambienti aridi e rocciosi, evita le zone boschive. È stata dichiarata specie protetta nel 1977.
La colonia storica era originaria della zona del Gran Paradiso, dove vive tutt’ora la maggior parte della popolazione, e da dove è sempre stato prelevato per le reintroduzioni storiche in tutto l’arco alpino, anche francese, austriaco e sloveno.
Muflone
Questo ungulato selvatico ovino (non cervide dunque come gli altri) è una specie alloctona di origine orientale, introdotto dall’uomo principalmente per ragioni venatorie. Preferisce stazionare in ambienti collinari o di bassa montagna, come gli altipiani rocciosi, ma è ritenuta abbastanza capace di adattarsi.
Nel nostro paese la sua distribuzione (decisamente disomogenea) è registrata principalmente lungo tutto l’arco alpino, nell’Appennino centro-settentrionale, in alcune microaree come il Gargano e infine in Sardegna (dove ha rischiato l’estinzione intorno agli anni ‘70).
Sono stati stimati circa 20.000 capi, soprattutto in Sardegna, dove è protetto e non può essere cacciato, a differenza delle Alpi e dell’Appennino. Una notevole attenzione viene posta nel rapporto e nell’interazione del muflone col camoscio poichè in grado di generare problematiche inerenti il territorio e l’alimentazione.
Camoscio alpino
Sulle Alpi italiane vive la più estesa popolazione europea di camoscio alpino, tanto da toccare i 137mila capi stimati. Questo habitat è privilegiato per il camoscio, da qui infatti non è mai scomparso e anzi viene considerato in espansione numerica.
Al di fuori dei confini nazionali è presente nell’Europa centro-orientale, fino al Caucaso. La sua origine zoogeografica viene collegata all’Asia sud-occidentale, da cui poi si diffuse in direzione del nostro continente, arrivando ad abitare tutto l’arco alpino. Ama le zone alpine e subalpine, le foreste ricche di sottobosco come i pendii rocciosi scoscesi.
Camoscio appenninico o d’Abruzzo
Rappresenta la varietà appenninica del camoscio alpino ed è presente solo nel parco nazionale dei monti Sibillini, nel Parco Nazionale del Gran Sasso, nel Parco Nazionale della Majella e in quello d’Abruzzo, quest’ultimo area originaria da cui sono stati reintrodotti i camosci nei primi 2 parchi.
Altri suoi “fratelli” vivono sui Pirenei e sui monti Cantabrici, in Spagna. Originario dell’Asia, comparve nel nostro territorio all’inizio dell’ultima glaciazione. Preferisce stabilirsi nelle zone alpine e subalpine, ma non ha preferenze particolari fra foreste o roccia, prati o terreni scoscesi.
Le reintroduzioni sono partite nel 1991, col rilascio di centinaia di capi dal Parco Nazionale d’Abruzzo. Sono stati stimati circa 1200 esemplari, un dato notevole se si considera che ha rischiato l’estinzione in seguito alle due guerre mondiali.
Dove sono distribuiti gli ungulati selvatici in Italia
La distribuzione degli ungulati selvatici italiani varia da specie a specie e nel nostro paese dopo un calo nel dopoguerra e negli anni ’60 i numeri sono in crescita.
Come abbiamo visto il Cinghiale è la specie più diffusa essendo presente nell’83,5% delle province italiane, segue il Capriolo con il 64,1%, il Daino con il 52,4%, il Cervo con il 44,7%, il Muflone con il 32%, il Camoscio alpino e lo Stambecco rispettivamente con il 21,4 ed il 14,6% ed infine il Camoscio appenninico con il 3,9%. La diffusione di Camoscio e Stambecco nelle province interessate ad almeno un tratto di catena alpina è assai elevata, e raggiunge il 95% di province per il Camoscio ed il 71% per lo Stambecco. Se puntiamo l’attenzione sull’Italia non si può non notare la ricchezza delle specie di ungulati presenti, con una maggiore biodiversità nell’area centro settentrionale ed una maggiore povertà di specie a Sud, dove resistono solo alcune specie endemiche in dei luoghi poco antropizzati.
Ungulati selvatici italiani: la caccia
Come evidenziato nella presentazione degli animali che compongono la categoria degli ungulati, molti di essi rientrano in categorie protette ed alcuni sono prelevabili solo in selezione. Su tutti però valgono le varie indicazioni espresse dalla regione in cui si caccia.
Senza dubbio, la crescita della popolazione degli ungulati su tutto il territorio nazionale e la loro sempre maggiore interferenza sulle attività dell’uomo, ha fatto sì che molte regioni rivedessero i criteri alla base dei regolamenti di caccia.
Tra le specie che hanno richiesto un nuovo coordinamento tra province e regioni confinanti possiamo trovare il cervo, capace anche di grandi migrazioni e di spostarsi per chilometri
Discorso a parte va fatto per il cinghiale, per il quale le leggi sono in continua evoluzione in ogni zona della penisola. Oltre ad essere la specie più diffusa, il cinghiale è anche quella che crea più problemi, per questo in molte zone è stata resa più chiara e immediata la disciplina relativa al raggiungimento degli obiettivi di densità, mettendo in opera i vari mezzi previsti che vanno dalla caccia, alla caccia di selezione, ai piani per il controllo numerico della popolazione.
Tra le norme che sempre più spesso si fissano ci sono anche le regole europee in materia di igiene degli alimenti relativi al consumo di animali selvatici, per garantire la tracciabilità dei capi non destinati all’autoconsumo.
Il dossier ISPRA sugli ungulati selvatici italiani
L’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), in collaborazione con Legambiente, Federcaccia, Arcicaccia e AnuuMigratoristi, ha diffuso un dossier dal quale è possibile ricavare alcuni dati interessanti.
I notevoli mutamenti ambientali che hanno caratterizzato il nostro paese nell’ultimo decennio (come poi avvenuto nel resto del mondo, più o meno), spiega il rapporto, pongono sotto esame il crescente consumo di suolo. Parallelamente a ciò si evidenzia in positivo l’attenzione sempre maggiore verso l’aumento delle aree protette sul suolo nazionale e una più stringente normativa della caccia.
Tra gli altri fattori positivi viene evidenziato il ruolo dei nuovi processi che interessano l’agricoltura, grazie ai quali numerose aree montane e di collina vengono lasciate libere dalla coltivazione, consentendo la formazione di ambienti ideali per la prosperazione degli ungulati, nonchè per un aumento della loro popolazione.
Questi dati per alcune specie sono molto positivi ed evidenziano come nel lasso di tempo 2005-2010 si sia verificato un aumento del 50-60% del numero complessivo di cinghiali presenti in Italia, mentre i caprioli sono passati da 425.000 a 455.000, ed i cervi da 63.000 a 68.000 individui.
Rispetto a questi dati però va anche letto il rovescio della medaglia: l’incremento esponenziale di alcune specie, in particolar modo del cinghiale, sta determinando crescenti danni alle coltivazioni ed all’agricoltura, crescenti rischi di incidenti stradali ed un aumento di trasmissione di patologie agli animali domestici o all’uomo. La questione è ad oggi molto controversa, non soltanto per la difficile rendicontazione dei rimborsi agli agricoltori o per i metodi necessari per prevenire i danni, ma anche per le tematiche legate al controllo numerico dei cinghiali. Proprio i dati ISPRA evidenziano che il cinghiale è responsabile dell’85% dei danni alle attività agricole con danni nel solo quinquennio 2005-2009 per oltre 35 milioni di euro.
Volendo aggiungere altri dati si può accingere da quelli regionali dai quali emerge, basandosi sulle richieste di rimborso, che gli incidenti stradali che vedono protagonisti cinghiali e caprioli nella Regione Toscana sono passati dai 188 del 2001 ai 478 del 2008.
Un altro aspetto numerico che ci può far comprendere come questa specie tra gli ungulati selvatici italiani sia cresciuta fino a rappresentare quasi un problema è il numero di abbattimenti nella sola regione Emilia Romagna passati da meno di 600 nel 1985, a 21mila nel 2012, nonostante il concomitante calo del numero di cacciatori.
Proprio per avere dati che consentano di capire al meglio la questione l’ISPRA ha avviato un progetto per la realizzazione di una “Banca dati sulla distribuzione, consistenza e gestione degli Ungulati selvatici in Italia” (BDU). Lo scopo è quello di “censire il patrimonio ambientale costituito dalla fauna selvatica, studiarne lo status, l’evoluzione e i rapporti con le altre componenti ambientali”.
In questa banca dati vengono raccolte informazioni sulla distribuzione, consistenza, prelievo venatorio, reintroduzioni, danni causati alle attività produttive degli Ungulati selvatici. Per reperire questi dati, così complessi da raccogliere, è necessario un grande lavoro che prevede la collaborazione tra Province, Regioni, Enti Parco, Aziende faunistico-venatorie ed altri attori legati al mondo dell’ambiente, della caccia e dell’agricoltura. La Banca Dati degli Ungulati è aggiornata al 2010 e i dati contenuti sono pubblicati e consultabili nel portale dell’ISPRA, in modo da permettere una maggiore fruibilità dei dati da parte delle Amministrazioni Pubbliche e del pubblico.
Proprio nell’ottica di giungere all’obiettivo di raccogliere dati sulla reale consistenza delle popolazioni di ungulati in Italia si inserisce il progetto “Carta d’identità degli ungulati selvatici”.
L’accordo di collaborazione tra ISPRA, Legambiente, Arcicaccia, Federcaccia e Anuu finalizzato a promuovere una più capillare la raccolta dati ed a velocizzare l’inserimento dei dati attraverso il coinvolgimento del mondo delle associazioni in questi compiti, con un diretto impegno anche del mondo venatorio sarà coordinato dal lavoro di Fondazione UNA nella speranza di avere presto dati fondamentali per la gestione della biodiversità nel nostro paese.