Che ci fanno insieme chef, macellai, gastronomi, ambientalisti e doppiette? Discutono sul come valorizzare la carne da selvaggina. E rendere la caccia un po’ più «etica»

CLUSONE (Bergamo). «Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati / causa, pretesto, le attuali conclusioni…». Forse un giorno anche i signori che sono qui in Valseriana si metteranno a cantare L’Avvelenata di Francesco Guccini. Sono infatti riuniti per spiegare che il cervo novello, che è nato in primavera ed è stato ucciso in autunno (insomma, un Bambi) ha una carne buonissima che non va stufata ma servita cruda. Ma come? In un mondo dove si vuol proibire di mangiare piccioni, conigli e cavalli («Siano protetti come animali da compagnia») questi signori raccontano che «la tartara di cervo con carpaccio di mela verde» è una delizia, e se poi assaggi l’hamburger con marmellata di cipolle rosse… Anche loro, come il Maestro, presto canteranno «lo ammetto che mi son sbagliato / e accetto il Crucifige e così sia…»? Per ora, nessun pentimento. Meglio precisare.

Non siamo in un’osteria nascosta nel bosco a mangiare cervi o stambecchi, allodole o tordi cacciati di frodo. Siamo nella Trattoria gastronomica Selva di Gelso e a discutere del tema Selvatici e Buoni, una filiera alimentare da valorizzare ci sono: Silvio Barbero, dell’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo (Cuneo), veterinari, sindaci, presidenti di comunità montane e naturalmente i cacciatori.

A prendere l’iniziativa è stata la Fondazione Una (Uomo, natura, ambiente) il cui presidente Nicola Perrotti dice subito che «questa non è una provocazione». «Cacciatori e ambientalisti si sono sempre presi a capocciate. Noi vogliamo che si incontrino e cerchino un punto d’accordo. Non si può continuare così. Ma lo sa che i cinghiali e altri animali uccisi nei parchi perché sono troppi non finiscono sulle tavole ma nell’inceneritore?».

Il macellaio Massimiliano Serpellini spiega che il Bambi che stiamo mangiando era 44 chili pulito, che è stato frollato per due settimane. Racconta che molto buoni sono anche i piccoli cinghiali di venti chili. Il cuoco Ivano Gelsomino e la moglie Massimiliana spiegano che grandissima parte di ungulati che si trovano nei ristoranti su Alpi e Prealpi arrivano congelati dai Paesi dell’Est. «E sulle nostre montagne ci sono camosci, caprioli, cervi buonissimi e sani. Non a caso la riunione si è fatta qui. Siamo stati i primi a cucinare in modo nuovo: già l’anno scorso abbiamo offerto il carpaccio di cervo con barbabietola rosa in agrodolce».

A preparare il progetto scientifico “per una filiera pulita, trasparente e sana” è stata l’Università degli studi di scienze gastronomiche di Pollenzo. Silvio Barbero (uno dei “quattro amici al bar” che hanno fondato Slow Food) spiega che «bisogna fare formazione». «I cacciatori non sanno trattare la carne. Non tutti, ad esempio, evirano il maschio appena abbattuto. Non ci sono macelli e macellai specializzati. Si mettono i pezzi in congelatore, altri finisco-no nei ristoranti, in nero, e così non si pagano Iva e il resto. La filiera prevede corsi per cacciatori, per macellai, per ristoratori». Nel 2010 in Italia – dati Ispra raccolti da Luca Pellicioli, medico veterinario -fra camosci, cervi, caprioli, mufloni, cinghiali, daini e stambecchi sono stati contati 1.310.380 capi, contro i 998.564 del 2001. Negli anni successivi la crescita è stata ancora più forte. Solo nelle Alpi Orobie, nel bergamasco, nel 2013 sono stati contati 4.836 camosci, 856 cervi e 3.863 caprioli. I «prelievi» (ovvero, gli abbattimenti) non hanno mai superato il 20 per cento. «Abbiamo a disposizione» spiega Barbero, «un’enorme risorsa di proteine derivate da animali naturalmente biologi-ci e non chiusi in allevamenti intensivi. Con il nostro progetto, il cacciatore non sarà più soltanto”quello che spara e ammazza” ma diventerà un “coltivatore”che fornirà selvaggina rispettando tutte le regole. E servirà anche l’ambiente, perché da anni siamo di fronte a una crescita abnorme degli ungulati, che devastano i campi e provocano decine di incidenti».

Anche Lorenzo Bertacchi, presidente della Federcaccia di Bergamo, racconta che il progetto “Selvatici e Buoni” non è affatto una provocazione. «Si esalta il grass fed (nutrito a erba) per bovini e altri animali e poi non si usa una carne, quella della selvaggina, che non si nutre d’altro e che è sicuramente.•libera da farmaci e mangimi. Ma lo sa da dove viene la carne dell’Est? In gran parte è ciò che resta dopo che i cacciatori di trofei – soprattutto dei cervi – hanno portato a casa solo la testa. E la caccia, in quei Paesi, avviene nella stagione degli amori, quando la carne non è buo-na per l’alta carica ormonale».

I corsi sono già partiti. «Ai cacciatori» dice Paolo Lanfranchi, dipartimento di Veterinaria all’Università di Milano, «bisogna insegnare tutto: anche a spa-rare. Devono colpire l’animale alla testa, così non soffre. E anche la carne resta più buona. I corsi vogliono dimostrare che può esistere davvero una caccia etica e positiva». Nella filiera entrano gli ungulati ma non solo. Graditi anche fa-giani, lepri, conigli selvatici. Per tutti, grandi e piccoli, fatture di accompagna-mento che partono dal macello e arriva-no alla trattoria o al negozio. Magari con un marchio. Millefoglie, caffè e si parla dello “spiedo” con i piccoli migratori. «Ora si può preparare con il tordo bottaccio e quello sassello, con la cesena, il merlo, l’allodola». Una volta si metteva anche il pettirosso. «Era il più buono, così tenero e dolce… Ma questo è un ricordo, lo scriva, solo un ricordo».

di Jenner Meletti
27 OTTOBRE 2017  IL VENERDÌ di Repubblica pag 45

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