La gestione del territorio rurale passa anche dal rapporto tra caccia e agricoltura. Scopri i benefici che queste due possono arrecare l’una all’altra.
Il rapporto tra caccia e agricoltura afferisce a un unico ambito: la gestione del territorio rurale. Con i conseguenti benefici che l’attività venatoria e quella agricola possono arrecare l’uno all’altro, anche e soprattutto legandosi al tema della tutela ambientale.
È un rapporto per certi versi complesso e non privo di fattori critici o contraddittori ma, quando le due attività vengono condotte in maniera sinergica la natura ringrazia.
Gli agricoltori hanno una maggiore sensibilità e predisposizione alla conservazione dell’ambiente rurale. Non è solo per ragioni di business, sebbene rappresenti la principale motivazione.
È implicato anche il fatto che esagerando con lo sfruttamento del terreno (grazie a un utilizzo improprio delle nuove tecnologie) si rischia di incorrere in problematiche inerenti tutto il territorio circostante (fauna compresa).
I cacciatori d’altra parte, sono a loro volta protagonisti in positivo della tutela ambientale, in quanto partecipano attivamente al controllo e alla regolazione equilibrata del numero di animali selvatici. La caccia infatti, consente di ridurre i danni alle coltivazioni che la stessa selvaggina, ungulati in primis, spesso causa. Producendo di conseguenza effetti benefici anche nella filiera alimentare (ovvero dove le carni vengono lavorate e vendute).
Il rapporto tra questi due ambienti è però molto complesso e in questo articolo andremo a vedere:
L’apporto benefico dell’attività rurale a quella venatoria
In questo rapporto tra caccia e agricoltura non è unicamente la prima ad apportare benefici alla seconda, ma anche viceversa: la gestione del territorio rurale può infatti migliorare l’attività venatoria al netto dei limiti e divieti territoriali o stagionali. Come è possibile ciò?
Da una parte con la nascita di aziende agri-faunistico-venatorie, come previsto dalla legge 152/92, di cui parleremo in seguito in maniera approfondita. Tali realtà si dedicano all’ambiente rurale su più ambiti, tutelando la biodiversità attraverso ricostituzione di habitat, presidio del territorio e le stesse coltivazioni. Senza contare i vantaggi generali al paesaggio agrario, forestale e idrogeologico.
Un discorso a parte merita invece la normativa 842 del Codice Civile, relativa l’accesso ai terreni agricoli privati da parte dei cacciatori, che per certi versi potrebbe limitarne l’azione. Il proprietario infatti non può impedire l’accesso a chi esercita la caccia se non sussistono queste 2 condizioni:
- Il terreno è stato chiuso e segnalato secondo i modi stabiliti dalla legge, ovvero tramite muri, reti o altro.
- Le coltivazioni presenti sono suscettibili di danno.
In entrambi i casi è così possibile apporre la consueta cartellistica di divieto previo consenso (non scontato) da parte delle autorità locali. Di come riconoscere le aree dove vige il divieto di caccia ne abbiamo parlato in un altro approfondimento.
Rapporto tra caccia e agricoltura: cosa dice la legge?
Il rapporto tra caccia e agricoltura è sempre stato oggetto di dibattito. L’attività agricola è una fonte alimentare fondamentale per noi come per gli stessi animali che vengono allevati, oltre a fornire insieme alle altre piante e alberi l’ossigeno che respiriamo. Sono evidenze che potremmo ritenere banali e ovvie, ma non è così: forniscono piuttosto la misura di quanto importante (e su più livelli) sia l’agricoltura per noi e per gli animali, allevati o selvatici che siano.
Proprio con gli agricoltori però, possono emergere diversi problemi, di portata notevole e per i quali l’abbattimento tramite attività venatoria rimane una delle soluzioni più efficaci, unitamente alla creazione di barriere per i propri terreni agricoli. Poco o nessun significato hanno nella maggior parte dei casi i reclami ambientalisti, che per una visione ristretta e ideologica non vedono come la caccia sia un aiuto notevole nel prevenire danni agli agricoltori e nel mantenere l’ecosistema in un sano equilibrio.
Inoltre, la legge 157/92 regola le “norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio“, stabilendo dunque tutto ciò che concerne l’esercizio della caccia e la tutela degli animali selvatici. L’attività venatoria, nello specifico, viene programmata tramite i Piani Faunistici Venatori regionali. Vediamo in maniera sintetica i diversi punti.
Territorio
La definizione del territorio dedito alla caccia, vede escludere generalmente una percentuale fra il 20 e il 30% dello stesso, dedicata alla protezione della fauna selvatica (in cui sono inclusi parchi, oasi e aree chiuse). Mentre un massimo del 15% può essere rivolto a una gestione della caccia privata, quindi eccezionale rispetto alla normale attività. Questo “ambito territoriale” è rilevante, come vedremo dopo, nel nostro discorso sul rapporto tra caccia e agricoltura.
Un aspetto importante deriva dalla suddivisione del “campo di caccia” in ATC, ovvero Ambiti Territoriali di Caccia. Il cacciatore deve scegliere una o più parti dell’area destinata alla caccia, vincolandosi in tal modo alla zona prescelta.
Gli Ambiti Territoriali di Caccia sono delle realtà associative senza scopo di lucro istituite in Italia con la legge 157/1992. Il loro obiettivo è quello di gestire in modo efficiente e sostenibile l’attività venatoria e la fauna selvatica a livello locale.
Come cacciare
Al netto della necessaria licenza per cacciare, la legge stabilisce e distingue diversi mezzi e modalità con cui praticare l’attività stessa. Nello specifico, le armi consentite sono l’arco e il più diffuso fucile, che a sua volta subisce delle restrizioni in base a canna, calibro, cartucce e altri utensili. Un altro mezzo consentito è l’affascinante pratica della falconeria.
Sulle modalità venatorie la legge distingue generalmente tra:
- Caccia vagante: con l’ausilio del cane da ferma o da cerca;
- Caccia da appostamento: dove si usano i richiami per insediare gli uccelli migratori.
Diverse solo le forme di caccia con le quali si insidiano gli ungulati. In questo caso, si può eseguire la girata o braccata, con la quale si caccia storicamente il cinghiale. Oppure la caccia di selezione, con la quale si insidiano anche gli altri ungulati presenti sul territorio nazionale, quali il capriolo, il daino, il cervo e altri.
Cosa e quando cacciare
L’autorità scientifica in materia di caccia è l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ISPRA. Il cui compito è di fornire indicazioni riguardanti la tutela della fauna e quindi di regolamentare tempistiche e specie da cacciare, in base alla popolazione delle stesse o al loro eventuale status protetto.
Il vero e proprio calendario venatorio viene deciso dalle singole regioni, tenendo ovviamente conto dei criteri stabiliti dalla legge. Generalmente tra la 2ª o 3ª domenica di settembre e fine gennaio, con possibili deroghe per alcune specie (su cui comunque l’ISPRA potrà porre veti o limitazioni) e l’assoluto divieto durante migrazioni, nidificazioni o fasi riproduttive. Inoltre, non è mai possibile cacciare il martedì e il venerdì.
Sempre più spesso i calendari venatori regionali sono incerti per durata e composizione. La causa è da attribuire ai ricorsi presentati ai Tribunali Amministrativi Regionali (TAR) da diverse associazioni ambientaliste e animaliste.
Divieti e sanzioni
L’ultima parte della legge 157/92 inerisce ulteriori obblighi, divieti e le conseguenti sanzioni (penali e/o amministrative) nel caso il cacciatore non segua le disposizioni di legge. Ad esempio la distanza di sicurezza rispetto ai centri abitati, il divieto di utilizzo di automezzi, l’obbligo a stipulare un’assicurazione, ecc.
Particolarmente interessante nel rapporto tra caccia e agricoltura è l’articolo 842 del Codice Civile (precedentemente citato) che, in combinazione con la 157, regola l’accesso dei cacciatori ai terreni privati, per lo più agricoli.
Infatti, è proprio questa norma che specifica che: “Il proprietario di un fondo non può impedire che vi si entri per l’esercizio della caccia, a meno che il fondo sia chiuso nei modi stabiliti dalla legge sulla caccia o vi siano colture in atto suscettibili di danno. Egli può sempre opporsi a chi non è munito della licenza rilasciata dall’autorità“. Così garantisce ai cacciatori di esercitare l’attività venatoria nel pieno rispetto delle norme.
I danni da fauna selvatica sulle colture
Il beneficio maggiore che l’attività venatoria può portare a quella agricola riguarda in maniera diretta la riduzione dei danni causati dalla fauna selvatica. È un problema che si è aggravato a partire dagli anni ’90 in seguito all’introduzione delle politiche di protezione e tutela degli stessi animali.
Gli ungulati in particolare, prima maggiormente limitati nel nostro paese, hanno vissuto una crescita notevole grazie ai ripopolamenti e alla creazione di nuovi habitat e sono tuttora i principali artefici e causa dei danni ai terreni agricoli. Sono diventati un problema sempre più rilevante per gli agricoltori e per il loro business, costringendoli a ricorrere a misure di protezione e prevenzione.
Se da una parte le recinzioni possono aiutare a impedire l’accesso ai terreni coltivati da parte degli animali, la miglior risposta a tale problematica risiede nel contenimento e controllo del numero di esemplari e quindi nell’abbattimento tramite caccia.
Purtroppo, spesso anche questo non basta, così i proprietari sono costretti a richiedere risarcimenti allo stato. Alla luce di un più stretto rapporto tra caccia e agricoltura, sarebbe interessante rivedere le politiche e l’impegno condiviso fra queste due realtà e le associazioni ambientali. Così da regolamentare in maniera differente e più efficace l’attività venatoria, venendo incontro a tutte le istanze. Senza contare poi la conseguente implementazione del commercio di selvaggina, con tutte le sue qualità e tipicità.
L’impegno dei cacciatori per la conservazione della natura
Stiamo iniziando a comprendere come l’attività venatoria sia attualmente un argine importante, seppur forse troppo limitato, ai danni che gli animali possono causare alle attività dell’uomo. Non solo sul rapporto tra caccia e agricoltura, ma anche alla stessa perdita di biodiversità in cui sono protagonisti.
In questo purtroppo dobbiamo considerarci artefici e causa primaria: non molti sanno che animali quali il daino o il muflone sono considerati alloctoni (non originari del nostro Paese e quindi introdotti in passato). La loro presenza ingombrante risulta essere un problema per specie endemiche come il cervo o il camoscio quando condividono i medesimi spazi e lo stesso cibo.
La biodiversità tipica del nostro territorio è un patrimonio da conservare, tanto da essere protagonista di numerosi progetti nazionali e internazionali. Alcuni di questi vedono in prima linea la stessa Federazione Italiana della Caccia (FIDC) che, coinvolta nella FACE (European Federation for Hunting and Conservation), promuove l’iniziativa europea “Strategia per la Biodiversità 2020”. L’obiettivo è di tutelare habitat e specie grazie al contributo degli stessi cacciatori. Il sito dedicato consente di scoprire le sezioni e le numerosissime azioni inerenti il progetto stesso.
Non va poi dimenticato che, la stessa Unione Europea, è direttamente coinvolta nella conservazione della varietà di ecosistemi minacciati dal cambiamento degli habitat. Dallo sfruttamento delle risorse, anche agricole, dall’introduzione di specie esotiche e dai cambiamenti climatici. Tematiche che hanno spinto la Commissione Europea a intraprendere una strategia ad hoc con obiettivo al 2030.
La Legge sul ripristino della Natura prevede infatti, che i Paesi dell’UE, dovranno ripristinare almeno il 30% delle aree terrestri e marine degradate (foreste, praterie, zone umide, fiumi, laghi, coralli) entro il 2030. Un’azione in cui il rapporto tra caccia e agricoltura diventa occasione di rinascita per tutta la natura che ci circonda.