Negli ultimi anni in Italia, e non solo, si è riscontrato un incremento dell’interesse verso il tema delle carni di selvaggina sia da parte della comunità scientifica sia da parte di molti cittadini.

La crescita esponenziale degli ungulati selvatici a vita libera che si è verificata sull’intero territorio nazionale ha reso infatti necessario lo sviluppo di strategie di gestione di queste popolazioni. A fianco dei piani di prelievo e contenimento si è affiancata la possibilità di avviare percorsi di filiera supportati da idonei strumenti legislativi.

L’attuale normativa vigente (Reg. CE 852-853/2004 e successivi recepimenti nazionali e regionali) stabilisce infatti i criteri e le modalità per l’autoconsumo, la cessione diretta e la commercializzazione delle carni di selvaggina attraverso la fondamentale presenza dei Centri di Lavorazione della Selvaggina (CLS) autorizzati dalle Aziende Sanitarie Locali (ASL).

Tutto ciò al fine di garantire al consumatore finale un prodotto di altissima qualità e che soddisfa gli standard in materia di sicurezza alimentare.

Carni di selvaggina, quanto ne sappiamo?

Le carni di selvaggina cacciata

Le carni di selvaggina cacciata, distinta in “piccola selvaggina” (animali da penna e lagomorfi) e “grossa selvaggina” (ungulati), è una carne che presenta numerosi vantaggi.

Innanzitutto ha un valore etico imprescindibile in quanto di fatto proviene da animali nati e vissuti in libertà. Questi animali non hanno subito un alimentazione forzata, non hanno subito alcun tipo di trattamento farmacologico o vaccinale ed inoltre non contribuiscono al consumo di terra e acqua tipico degli allevamenti intensi.

La selvaggina dopo un’intera vita vissuta in libera in ambiente naturale è prelevata con la massima professionalità da persone formate. Infatti. per arrivare ad un prodotto di qualità, è necessario che il prelievo del capo sia stato fatto in modo corretto e nel pieno rispetto del benessere animale evitando quindi inutili sofferenze e permettendo così di avere un prodotto di qualità.

Oggi, grazie ad una specifica formazione del mondo venatorio, prevista dalla normativa nazionale, la selvaggina a vita libera è oggetto di prelievo venatorio e i ricchi carnieri di alcune zone d’Italia rappresentano di fatto una produzione primaria alternativa agli animali domestici allevati.

Carni di selvaggina, quanto ne sappiamo?

Le carni di selvaggina nella ristorazione

A livello di ristorazione, le carni di selvaggina sono storicamente legate ad antiche consuetudini culinarie che prevedevano l’uso di intense speziature e lunghe cotture necessarie per nascondere il cosiddetto “sapore di selvatico”.

Tale sapore tuttavia non è una caratteristica della selvaggina ma è la conseguenza di un trattamento non corretto delle carni e di una conservazione non idonea.

Da un punto di vista nutrizionale le carni di selvaggina presentano, a livello generale, un contenuto inferiori di grassi e maggiore di proteine (rispetto a quelle di animali domestici) oltre che un alto contenuto di acidi grassi Omega-3 e sali minerali come zinco e ferro.

Molta attenzione oggi è posta al processo di frollatura che è un insieme di naturali processi biochimici che si instaurano nella carcassa dell’animale abbattuto permettendo la trasformazione del muscolo in carne.

Nuove modalità di cottura a bassa temperatura o preparazioni a crudo, quali carpacci e tartare, permettono di assaporare appieno la tenerezza e il delicato sapore delle carni di selvaggina, capaci di sorprendere ed essere apprezzata da un pubblico di consumatori attenti.

La valorizzazione delle carni di selvaggina rappresenta quindi una scelta sana, giusta e sostenibile ed oggi si sta lavorando nell’ottica di un’affermazione della selvaggina come nuova risorsa alimentare oltre che economica in quanto capace di originare un circolo virtuoso che porti beneficio a chi vive e lavora nei territorri alpini o margini.

Carni di selvaggina…...quanto ne sappiamo ?

Il progetto scientifico ‘Selvatici e buoni: una filiera alimentare da valorizzare’

Con tutte queste premesse è stato avviato il progetto scientifico ‘Selvatici e buoni: una filiera alimentare da valorizzare’. Progetto sostenuto dalla Fondazione UNA Onlus (Uomo Natura Ambiente) che vede capofila l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo in collaborazione con il Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano, la Società Italiana di Medicina Veterinaria Preventiva e Studio AlpVet..

Il progetto, dopo un’attenta e puntuale fase di condivisione programmatica tra i partner scientifici del progetto e le realtà Istituzionali e associative locali, è stato ufficialmente avviato il 22 settembre a Clusone (BG) nell’area di studio della Provincia di Bergamo ed in particolare in valle Seriana, val di Scalve e val Borlezza.

Obiettivo principale di ‘selvatici e buoni’ è sviluppare, nel rispetto della sicurezza alimentare, le modalità operative per la corretta gestione igienico-sanitaria della filiera delle carni di grossa selvaggina permettendo la valorizzazione di un prodotto dalle importanti caratteristiche nutrizionali e la sua promozione sul territorio affermando un modello di sviluppo delle aree montane in grado di coniugare esigenze ambientali e socio-economiche attraverso adeguate scelte gestionali.

L’attenzione è rivolta in particolare agli ungulati selvatici che negli ultimi decenni hanno registrato una forte crescita demografica ed una consistenze espansione dei propri areali su tutto il territorio alpino, determinando in alcune situazioni danni agroforestali ed anche la nascita di problematiche sanitarie. Il progetto si collega quindi anche alla necessità di arginare tali criticità contribuendo a trasformare un problema in una risorsa.

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